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Giovanni Calvino
Giovanni Calvino, italianizzazione di Jehan Cauvin (Noyon, 10 luglio 1509 – Ginevra, 27 maggio 1564), è stato un umanista e teologo francese. Calvino è stato, con Lutero, il massimo riformatore religioso del cristianesimo protestante europeo degli anni venti e trenta del Cinquecento. Dal suo nome è stato coniato il termine "calvinismo" per indicare il movimento e la tradizione teologica e culturale scaturita dal suo pensiero e che, per molti versi, si distingue dal luteranesimo. Il pensiero di Calvino è espresso soprattutto nell'opera Istituzione della religione cristiana, completata nel 1559. A grandi linee il sistema religioso e la teologia di Calvino possono essere considerati, almeno per ciò che riguarda i sacramenti ed il loro valore religioso, una continuazione ed un perfezionamento dello zwinglianesimo, una dottrina protestante non luterana che prende il nome dal proprio fondatore, Huldrych Zwingli.
Jean Cauvin (latinizzato in Johannes Calvinus) nacque il 10 luglio 1509 nella città francese di Noyon, in Piccardia, dove il padre Gérard si era trasferito dalla vicina Pont-l'Évêque nel 1481. Gérard Cauvin, già segretario di cancelleria, fu avvocato del vescovo di Noyon, poi funzionario delle imposte e ancora segretario del vescovo, col quale ebbe così gravi contrasti da essere scomunicato; morì nel 1531. La madre, Jeanne Lefranc, ebbe altri tre figli: il maggiore, Charles, che morì nel 1536 e, dopo Jean, Antoine, che vivrà a Ginevra con il fratello, e François, morto in tenera età. Jeanne morì nel 1515 e il vedovo Gérard si risposò, avendo altre due figlie, una delle quali, Marie, vivrà anch'essa a Ginevra con i fratellastri.
La situazione politica e religiosa
È noto come per tutto il Medioevo europeo il clero riservasse a sé il monopolio della cultura, prevalentemente di contenuto religioso, custodita in pochi manoscritti nelle biblioteche dei conventi. Lo sviluppo di un'economia urbana, la formazione di una borghesia intraprendente e colta, la creazione della tecnica della stampa, con la conseguente diffusione di testi scritti, spezzarono tale monopolio: il testo religioso poteva essere letto e meditato nelle biblioteche private, passando al vaglio della critica e dell'interpretazione laica e personale. La diffusione della cultura innescò il circolo virtuoso della formazione di un numero crescente di umanisti, spesso laici, che pubblicarono le loro ricerche, provocarono risposte dai loro lettori e suscitarono anche polemiche, allargando così un dibattito culturale che aveva per confini soltanto quelli stessi dell'Europa.
L'adesione alla Riforma
Fu probabilmente l'illusione che il re simpatizzasse con le posizioni riformatrici della sorella Margherita, di Gérard Roussel e di Jacques Lefèvre d'Étaples, a spingere il neo-rettore dell'Università parigina, Nicolas Cop, amico di Calvino, ad auspicare, il 1º novembre 1533, nel suo discorso d'inaugurazione del nuovo anno accademico, la riforma della chiesa e a prospettare la dottrina, di famigerata origine luterana, della «giustificazione per sola fede». Lo scandalo fu enorme nell'Università e a corte; destituito dall'incarico il 19 novembre e convocato per giustificarsi dal Parlamento, Cop non si presentò e fuggì da Parigi. La circostanza che anche Calvino lasciasse la capitale in quei giorni, che egli fosse in possesso di una copia del discorso di Cop e la tardiva testimonianza di Teodoro di Bèze, hanno fatto ritenere che il discorso fosse stato scritto da lui, un'ipotesi contestata da chi non rileva nella forma e nella sostanza del documento lo stile e il pensiero di Calvino, il quale, del resto, poche settimane dopo era nuovamente a Parigi, trasferendosi di qui, nel gennaio 1534, nella provincia della Saintonge, vicino Angoulême, presso un discepolo di Lefèvre d'Estaples, il canonico Louis du Tillet, rettore di Claix, uomo di non tranquilla fede cattolica e di posati studi teologici, come testimonia la sua ricca biblioteca.
Qui Calvino scrisse, pubblicandola solo nel 1542, la Psychopannychia, confutazione dell'opinione di origine anabattista che l'anima, con la morte, si addormenti. L'opera è del tutto in linea con l'ortodossia del tempo e, da sé sola, non mostra alcuna adesione a idee riformate, tanto che uno storico cattolico del tempo afferma che in questi anni Calvino si conformava in tutto alla confessione cattolica. Ma probabilmente si trattava ormai di un atteggiamento esteriore di necessaria convenienza: in aprile Calvino era a Nérac, nella corte di Margherita d'Angoulême, luogo di ritrovo di intellettuali che, se non possono essere definiti luterani, erano anche distanti dall'ortodossia cattolica; poche settimane dopo andò a Noyon dove, il 4 maggio 1534, nel Capitolo della cattedrale, rinunciò ai benefici ecclesiastici di cui godeva. A questa circostanza è legato un oscuro episodio: un editto di Noyon del 26 maggio 1534 attesta che un «Iean Cauvin dict Mudit» fu arrestato per aver disturbato in chiesa la cerimonia della festa della Trinità. Il cognome Cauvin si riscontrava frequentemente nella provincia e il soprannome Mudit non appare mai associato con Giovanni Calvino che, anni dopo, nel 1545, scrisse[13] di «ringraziare Dio» di non essere mai stato in prigione: né sarebbe stato sconveniente, per un riformatore, confessare di aver patito il carcere per la propria fede. Da Noyon sarebbe andato a Parigi, per avere un incontro con un medico spagnolo, l'«eretico» Michele Serveto, che tuttavia non si presentò; i due s'incontreranno vent'anni dopo, a Ginevra, in diverse e tragiche circostanze; da qui sarebbe andato ancora ad Orléans e a Poitiers.
Il 18 ottobre 1534 scoppiò in Francia lo scandalo dei placards (manifesti): in diversi luoghi della capitale, di altre città della Francia e persino nell'anticamera della stanza da letto di Francesco I, nel castello di Amboise, furono affissi manifesti che denunciavano l'eresia della messa cattolica: secondo Antoine Marcourt, l'ispiratore della clamorosa protesta, è una bestemmia e una profanazione ripetere il sacrificio di Cristo nella messa e pretendere che il suo corpo sia presente nell'ostia, perché egli fu in realtà crocefisso storicamente una volta sola e ora siede in cielo alla destra di Dio, come afferma l'autore della Lettera agli Ebrei. La reazione delle istituzioni ecclesiastiche e dello stesso re fu violenta: mettere in discussione una tradizione ormai millenaria e radicata nelle coscienze, sembrava voler scalzare alle radici non solo tutta la confessione cattolica, i valori del sacerdozio e l'autorità papale, ma le basi stesse dello Stato che anche su quelle tradizioni trae giustificazione e appoggio. Nel gennaio 1535 il re e la corte invocarono il perdono divino con una penitente processione per le strade di Parigi, ma non trascurarono di accendere roghi e innalzare patiboli; in tutta la Francia furono decine le vittime della repressione e migliaia coloro che, già critici o dubbiosi, scelsero il silenzio o l'esilio. Fra questi ultimi fu Calvino che, preso il nome di Martinus Lucianus - anagramma di Caluinus - insieme con Louis du Tillet, passando per Strasburgo, prese la strada di Basilea. Basilea era già una città riformata di lingua tedesca, rifugio di numerosi evangelici o dissidenti religiosi di diversi paesi europei, da Celio Secondo Curione a Elie Couraud, da Guglielmo Farel a Pierre Viret, da Giovanni Ecolampadio a Pierre Caroli, da Claude de Feray a Pierre Toussaint e a Erasmo, qui giunto nel maggio 1535 per morirvi l'anno dopo.[15] Si dice che Calvino abbia revisionato la versione francese della Bibbia tradotta dall'Olivetano, stampata a Neuchâtel in quello stesso anno da Pierre de Vingle, il tipografo dei placards e che ne sia stato l'autore della prefazione, dove non interpreta, secondo la tradizione, il Vecchio Testamento come preparazione al messaggio del Nuovo, ma Vecchio e Nuovo Testamento come un'unica manifestazione della parola di Dio, rimanendo Cristo il centro della rivelazione.
L'Istituzione della religione cristiana
Fu a Basilea che Calvino portò a termine, nell'agosto del 1535, la prima edizione di quella che resta la sua opera più significativa e una delle migliori, se non la migliore, per chiarezza e precisione di espressione, di tutta la Riforma: la Institutio christianae religionis. Scritta in latino e pubblicata nel marzo 1536 con una lettera di dedica a Francesco I, nella quale Calvino difende l'evangelismo dalle accuse dei suoi nemici, comprendeva soltanto sei capitoli; nel 1539 conobbe una seconda versione, pubblicata a Strasburgo, ampliata a diciassette capitoli, che conobbe una traduzione francese nel 1541, di mano dello stesso Calvino, e con diverse modifiche rispetto alla precedente. Una terza edizione latina, pubblicata ancora a Strasburgo nel 1543, raggiunse i ventun capitoli e conobbe una traduzione francese, comparsa a Ginevra nel 1545. Dopo aver cercato di dare una struttura più organica alla materia nell'edizione successiva del 1550 - dalla quale fu tratta la prima versione il lingua italiana, pubblicata a Ginevra nel 1557 - Calvino rifuse tutta la materia, pubblicando a Ginevra l'edizione definitiva nel 1559 e la traduzione francese nel 1560, così che l'opera si presenta ora divisa in quattro libri di ottanta capitoli complessivi
I libro: la conoscenza di Dio
Il I libro si apre con l'affermazione che «Quasi tutta la somma della nostra sapienza [...] si compone di due elementi e consiste nel fatto che conoscendo Dio ciascuno di noi conosca anche se stesso»: poiché dal sentimento della nostra limitatezza «siamo condotti a riconoscere che in Dio solamente c'è vera luce di saggezza, forza stabile, ricchezza di ogni bene, purezza di giustizia», deriva che «la conoscenza di noi stessi [...] non solo ci stimola a conoscere Dio, ma anzi deve guidarci, quasi per mano, a trovarlo» (I, 1, 1).
Stabilito come vi sia «un legame reciproco tra la conoscenza di Dio e quella di noi stessi e l'una sia in relazione con l'altra» (I, 1, 3), Calvino afferma che la conoscenza di Dio è innata: tutti gli uomini hanno «in sé, per naturale sentimento, una percezione della divinità» (I, 3, 1) anche quando questo «germe di religione» degeneri in idolatria. La religione non è dunque l'invenzione «di alcuni furbi per mettere la briglia al popolo semplice» anche se ammette che uomini «astuti e abili hanno inventato non poche corruzioni per attirare il popolino a forme di insensata devozione e per spaventarlo onde divenisse più malleabile» (I, 3, 2). Se «la sua essenza è incomprensibile e la sua maestà nascosta, ben lontano da tutti i nostri sensi», se pure Dio si manifesta tuttavia attraverso la creazione che è «un'esposizione o manifestazione delle realtà invisibili» (I, 5, 1), «sebbene la maestà invisibile di Dio sia manifestata in questo specchio, noi tuttavia non abbiamo gli occhi per contemplarla finché non siamo illuminati dalla rivelazione segreta dataci dall'alto» (I, 5, 13).
Si conosce Dio in modo retto solo attraverso la Scrittura, in quanto in essa viene conosciuto «non solo come creatore del mondo avente autorità e responsabilità su tutto ciò che accade, ma anche come redentore nella persona del nostro Signore Gesù Cristo» (I, 6, 1). Ma chi garantisce dell'autenticità della Scrittura, «che sia pervenuta sana e intera fino al nostro tempo? Chi ci persuaderà ad accettare un libro e respingerne un altro senza contraddizione?» (I, 7, 1). Non è la Chiesa ad avere «il diritto di giudizio sulla Scrittura, come se ci si dovesse attenere a quello che gli uomini hanno stabilito per sapere se è parola di Dio oppure no» perché questa, come afferma Paolo (Ef. 2, 20), è fondata sugli apostoli e sui profeti e dunque se «il fondamento della Chiesa è rappresentato dalla dottrina che ci hanno lasciata i profeti e gli apostoli, occorre che tale dottrina risulti certa prima che la Chiesa cominci ad esistere» (I, 7, 2). Solo Dio stesso è testimone di se stesso e la sua parola avrà fede negli uomini solo se «sarà suggellata dalla testimonianza interiore dello Spirito. È necessario dunque che lo stesso Spirito che ha parlato per bocca dei profeti entri nei nostri cuori e li tocchi dal vivo onde persuaderli che i profeti hanno fedelmente esposto quanto era loro comandato dall'alto» (I, 7, 4).
Calvino si oppone alla raffigurazione di Dio - «questa grossolana follia si è diffusa fra tutti gli uomini spingendoli a desiderare le immagini visibili per raffigurarsi Dio, infatti se ne sono costruite di legno, di pietra, d'oro, d'argento e di ogni materiale corruttibile» (I, 12, 1) – in quanto espressamente vietata nella Scrittura e già messa in ridicolo persino da antichi scrittori. Anche se papa Gregorio I sostenne che le immagini sono i libri dei semplici, «quello che gli uomini imparano su Dio attraverso le immagini è vano e anche illecito» (I, 12, 5): sarebbe sufficiente riflettere sul fatto che «le prostitute nei loro bordelli sono vestite più modestamente delle immagini della Vergine nei templi dei papisti. Ne più conveniente è l'acconciatura dei martiri» (I, 12, 7) e finire con l'adorare quelle immagini significa cadere nella superstizione. Calvino ripropone la dottrina ortodossa della Trinità: Dio «si presenta quale solo Dio e si offre, per essere contemplato, distinto in tre persone» e «affinché nessuno immagini un Dio a tre teste o triplo nella sua essenza, oppure pensi che l'essenza semplice di Dio sia divisa e spartita» (I, 13, 2), chiarendo che per persona occorre intendere ipostasi o sussistenza, «una realtà presente nell'essenza di Dio, in relazione con le altre ma distinta per una proprietà incomunicabile; e questo termine presenza deve essere inteso in un senso diverso da essenza» (I, 13, 6). I termini Padre, Figlio e Spirito indicano una vera distinzione, non sono «appellativi diversi attribuiti a Dio semplicemente per definirlo in diversi modi; tuttavia dobbiamo ricordare che si tratta di una distinzione, non di una divisione» (I, 13, 17).
II libro: la conoscenza di Cristo
Trattato di Dio creatore, ora si tratta di Gesù Cristo, il Dio redentore della «nostra misera condizione, sopravvenuta per la caduta di Adamo» (II, 1, 1). Calvino nega valore alla teoria pelagiana «che insegna all'uomo ad aver fiducia in se stesso» (II, 1, 2) e che considera «inverosimile che i bambini nati da genitori credenti ne ricevano corruzione e li considerano invece purificati dalla purezza di questi». Per Calvino, come per Agostino, i genitori «genereranno figli colpevoli perché li generano dalla propria natura viziosa» ed essi possono essere santificati da Dio «non in virtù della loro natura» – resa perversa dal peccato originale e perciò incapaci di salvarsi da sé – «bensì della sua grazia» (II, 1, 7). Dopo aver analizzato le definizioni di libero arbitrio portate da Cicerone fino a Tommaso d'Aquino, passando per Crisostomo e Bernardo di Chiaravalle, rileva come essi riconoscano «all'uomo il libero arbitrio non perché abbia libera scelta tra il bene e il male, ma perché fa quello che fa volontariamente e non per costrizione. Questo è esatto. È però ridicolo attribuire qualità sì grandiose ad una realtà così fatta. Bella libertà per l'uomo il non essere costretto a servire il peccato, ma di essergli schiavo volontariamente al punto che la sua volontà sia prigioniera dei suoi legami!» (II, 2, 7). Sulla scorta di Agostino e di Lutero, sostiene che «la volontà dell'uomo non è libera senza lo Spirito di Dio, dato che è soggetta alle proprie concupiscenze» e che «l'uomo usando male il libero arbitrio, lo ha perduto ed ha perduto se stesso: il libero arbitrio è in cattività e non può operare il bene: non sarà libero fino a che la grazia di Dio lo abbia liberato» (II, 2, 8).
Se la salvezza dell'uomo è possibile solo attraverso Cristo, allora la Legge mosaica fu data per «mantenerne viva l'attesa». (II, 7, 1) e se il culto ebraico – fatto di sacrifici animali e «fumo puzzolente per riconciliarsi con Dio [...] appare un gioco sciocco e infantile» (II, 7, 2), occorre tenerne presente i simboli cui corrispondono verità spirituali. Tre sono i compiti della Legge morale: «mostrando la giustizia di Dio, la Legge fa prendere coscienza a ognuno della propria ingiustizia, convincendolo e condannandolo» (II, 7, 6) e facendo sorgere la coscienza del peccato. La seconda funzione «consiste nel ricorrere alle sanzioni per mettere un freno alla malvagità di quanti si curano di fare il bene solo quando siano costretti» (II, 7, 10), mentre la terza e principale «si esplica fra i credenti nel cui cuore già regna ed agisce lo spirito di Dio [...] per far loro sempre meglio e più sicuramente comprendere quale sia la volontà di Dio» (II, 7, 12). E tuttavia Gesù Cristo, venuto ad abolire la Legge fatta di precetti e «con la purificazione operata dalla sua morte [...] ha abolito tutte quelle pratiche esteriori con cui gli uomini si confessano debitori di Dio senza poter essere scaricati dei loro debiti» (II, 7, 17). Esistono differenze tra il Vecchio e il Nuovo Testamento: quest'ultimo ha rivelato più chiaramente «la grazia della vita futura [...] senza ricorrere [...] a strumenti pedagogici inferiori» (II, 11, 1); il Vecchio Testamento «rappresentava la verità, ancora assente, mediante immagini; invece del corpo, aveva l'ombra (II, 11, 4), in esso vi è, come scrive Paolo nella Seconda lettera ai Corinzi, «dottrina letterale, predicazione di morte e di condanna scritta su tavole di pietra; l'Evangelo invece dottrina spirituale di vita e di giustizia scolpita nei cuori; afferma inoltre che la Legge deve essere abolita e che l'Evangelo permane» (II, 11, 7). L'Antico Testamento «genera timore e terrore nel cuore degli uomini; il Nuovo, [...] li conferma nella sicurezza e nella fiducia (II, 11, 9).
«Colui che doveva essere il nostro mediatore doveva necessariamente essere vero Dio e vero uomo». Non potendo l'uomo salire a Dio, egli discese verso l'uomo in modo che «la sua divinità e la natura umana fossero unite insieme, altrimenti non vi sarebbe stata unità sufficiente né affinità bastante per farci sperare che Dio abitasse con noi» (II, 12, 1). La riconciliazione dell'uomo con Dio, realizzando «un'obbedienza tale da soddisfare il giudizio di Dio» fu possibile proprio perché «Gesù è apparso in veste di Adamo, ne ha preso il nome mettendosi al suo posto al fine di obbedire al Padre, presentare il proprio corpo quale prezzo di soddisfazione del suo giusto giudizio e sopportare la pena che noi avevamo meritata nella carne in cui la colpa era stata commessa» (II, 12, 3).
III libro: lo Spirito Santo
Per ottenere i benefici del sacrificio di Cristo occorre che egli «diventi nostro ed abiti in noi» mediante la fede in lui, ottenuta dall'intervento dello Spirito Santo, che «costituisce il legame mediante il quale il figlio di Dio ci unisce a sé con efficacia» (III, 1, 1) La fede non può essere che la conoscenza di Dio tratta dalla Scrittura ma se intimamente non se ne ha «certezza assoluta, l'autorità della Parola è ben debole, o del tutto nulla» (III, 2 6). Pertanto, la fede è «una conoscenza stabile e certa della buona volontà di Dio nei nostri confronti, conoscenza fondata sulla promessa gratuita data in Gesù Cristo, rivelata al nostro intendimento e suggellata nel nostro cuore dallo Spirito Santo» (III, 2 7).
Citando la Lettera ai Romani di Paolo, Calvino sostiene che «Dio, senza riguardo ad alcuna opera, sceglie coloro che ha decretato in sé [...] non otteniamo la salvezza, se non per la pura liberalità di Dio [...] e non è per dare una ricompensa, che non può essere dovuta» (III, 21, 1). La predestinazione alla salvezza, secondo Calvino, è divenuto un problema unicamente a causa dell'«audacia e della presunzione» della mente umana, desiderosa «di non lasciare a Dio nulla di segreto, di inesplorato o di non esaminato [...] è assurdo che le cose le quali Dio ha voluto tener nascoste e di cui si è serbata la conoscenza, siano impunemente valutate dagli uomini [...] i segreti della sua volontà, che ha pensato fosse opportuno comunicarci, ce li ha manifestati nella sua parola e ha ritenuto opportuno farci conoscere tutto quel che ci concerne e ci giova» (III, 21, 1). Calvino crede nella predestinazione, «per mezzo della quale Dio ha assegnato gli uni a salvezza e gli altri a condanna eterna» (III, 21, 5); ma non possiamo stabilire chi sia salvato e chi dannato, se non coloro «a cui Dio non solo offre la salvezza, ma dà anche una certezza tale, per cui la realtà non può essere incerta né dubbia [...] nell'adozione della discendenza di Abramo è apparso chiaramente il favore generoso di Dio, che egli ha negato a tutti gli altri; ma la grazia accordata ai membri di Gesù Cristo ha ben altra preminenza di dignità, poiché essendo uniti al loro capo, non sono mai tagliati fuori dalla loro salvezza» (III, 21, 6).
IV libro: la Chiesa
Affinché «la fede sia generata in noi, cresca e progredisca» e continui la predicazione dell'Evangelo, Dio ha istituito la Chiesa, i pastori, i dottori e i sacramenti, «strumenti particolarmente utili ad alimentare e confermare la nostra fede» (IV, 1, 1): fuori dalla Chiesa, secondo Calvino, «non si può sperare di ottenere remissione dei peccati o salvezza alcuna» (IV, 1, 4).
Vi è una Chiesa invisibile, nel senso che è formata dalla comunità degli eletti, che sono noti solo a Dio, e una Chiesa visibile, la concreta e storica comunità dei credenti, nella quale, oltre ai buoni, vi sono però anche gli ipocriti «che non hanno nulla di Gesù Cristo fuorché il nome e l'apparenza, ambiziosi gli uni, avari gli altri, maldicenti alcuni, dissoluti altri, tollerati per un certo tempo sia perché non si possono convertire con provvedimenti giuridici, sia perché la disciplina non è sempre esercitata con la fermezza che sarebbe richiesta» (IV, 1, 7). Non tutte le Chiese, che pure tali si definiscono, possono essere considerate autentiche: il criterio per riconoscere l'autentica Chiesa visibile è riscontrare se in essa «la Parola di Dio essere predicata con purezza, ed ascoltata, i sacramenti essere amministrati secondo l'istituzione di Cristo» (IV, 1, 9). Essa viene retta preminentemente dagli apostoli, dai profeti e dagli evangelisti, alle origini, «quantunque a volte ne susciti ancora oggi quando se ne presenta la necessità», e poi dai pastori e dai dottori, secondo quanto scrive Paolo nella lettera agli Efesini. Di dottori e pastori la Chiesa non può fare a meno: «i dottori non hanno incarico disciplinare, né di amministrazione dei sacramenti, né di fare esortazioni o ammonizioni, ma solo di esporre la Scrittura affinché sia sempre conservata nella Chiesa una dottrina pura e sana. La carica di pastore invece comprende tutte queste mansioni» (IV, 3, 4).
Calvino polemizza con la Chiesa cattolica, accusandola di aver istituito articoli di fede in contrasto con le Scritture: i cattolici inventano «seguendo la loro fantasia e senza alcun riguardo per la parola di Dio, le dottrine che a loro piace [...] non considerano cristiano se non chi vive in pieno accordo con tutte le loro decisioni [...] il loro principio fondamentale è che spetti all'autorità della Chiesa creare nuovi articoli di fede» (IV, 8, 10). Essi sostengono che la Chiesa non può errare perché, essendo retta dallo Spirito Santo, può camminare sicura anche senza la Parola: questo è il punto di dissenso rilevato da Calvino. Essi «attribuiscono autorità alla Chiesa all'infuori della Parola; noi, al contrario, congiungiamo l'una e l'altra in modo inscindibile» (IV, 8, 13). Definito sacramento «un segno esteriore mediante cui Dio suggella nella coscienza nostra le promesse della sua volontà di bene nei nostri riguardi, per fortificare la debolezza della nostra fede, e mediante il quale, dal canto nostro, rendiamo testimonianza, sia dinanzi a lui e agli angeli, sia davanti agli uomini, che lo consideriamo nostro Dio» (IV, 14, 1), Calvino sottolinea che essi non hanno in sé stessi la facoltà di confermare e accrescere la fede, se non quando «il maestro interiore delle anime, lo Spirito, vi aggiunge la sua potenza, la sola in grado di raggiungere i cuori e toccare i sentimenti per dare accesso ai sacramenti. In assenza dello Spirito, essi non sono in grado di recare allo spirito più di quanto dia la luce del sole ad un cieco e una voce alle orecchie di un sordo» (IV, 14, 9). Calvino rifiuta i cinque sacramenti dell'ordine sacro, della penitenza, della cresima, del matrimonio e dell'unzione degli infermi, che non ravvisa essere stati istituiti nell'Evangelo ma solo dalla Chiesa medievale, mantenendo il battesimo, che «ci attesta che siano lavati» e la santa cena, che «ci attesta che siano riscattati» (IV, 14, 22).
In polemica con gli anabattisti, Calvino sostiene la validità del battesimo dei bambini. Segno mediante cui ci si dichiara membri del popolo di Dio, esso è l'equivalente della circoncisione ebraica: «se fosse sottratta a noi la testimonianza che gli Ebrei ebbero riguardo ai loro figli, la venuta di Cristo avrebbe avuto come risultato che la misericordia di Dio sarebbe meno evidente per noi di quanto lo fu per gli Ebrei» (IV, 16, 6). D'altra parte Calvino nega che la mancanza di battesimo comporti l'esclusione di per sé dalla vita eterna.
Nella Cena eucaristica il pane e il vino «rappresentano il nutrimento spirituale che riceviamo dal corpo e dal sangue di Gesù Cristo [...] affinché saziati della sua sostanza riceviamo di giorno in giorno nuovo vigore fino a giungere all'immortalità celeste» (IV, 17, 1). Calvino afferma che Cristo nella Cena, sotto i segni del pane e del vino, ci ha offerto realmente se stesso, cioè «il suo corpo e il suo sangue, nei quali ha adempiuto ogni giustizia per procurarci salvezza: e questo accade in primo luogo affinché siamo uniti in un corpo con lui; in secondo luogo affinché, resi partecipi della sua sostanza, percepiamo la sua potenza, avendo comunione a tutti i suoi benefici» (IV, 17, 10). Qui occorre però chiarire che Calvino non intende sostanza alla maniera cattolica, nel senso del realismo aristotelico-tomista, ma in modo nominalista, ovvero come una volutamente indefinita "presenza dinamica efficace". A sostegno di ciò, descrive il sacramento come costituito da tre elementi: il suo significato, cioè la promessa indicata nel segno del sacramento stesso, la materia, ossia la morte e la resurrezione di Cristo, e l'efficacia, ovvero i benefici di accrescimento della fede che il credente riceve. In questo senso, «nella Cena, sotto i segni del pane e del vino, ci ha offerto realmente Gesù Cristo, cioè il suo corpo e il suo sangue, nei quali ha adempiuto ogni giustizia per procurarci salvezza» (IV, 17, 11).
Calvino si scaglia contro una concezione materialistica di tale presenza, «quasi il corpo di Cristo scendesse sul tavolo e fosse qui localizzato per essere toccato dalle mani, masticato in bocca e inghiottito nello stomaco. Fu papa Nicola a dettare questa bella formula a Berengario come attestato del suo pentimento. Sono parole di tale enormità da lasciare stupefatti» (IV, 17, 12). In realtà, la teologia cattolica tradizionale non sosteneva affatto che Gesù Cristo fosse rinchiuso nel pane e nel vino in forma locale o materiale, ma che il corpo e sangue di Cristo si sostituissero alla sostanza del pane e del vino, pur conservandone l'apparenza materiale (le specie, cioè gli accidenti). In questo modo, in realtà, ciò che apparirebbe come pane non sarebbe più pane, ma il corpo di Cristo sotto l'apparenza di pane. Calvino, sulla linea di Zwingli e distaccandosi in parte da Lutero, rifiuta questa dottrina della transustanziazione: «Qualunque siano i termini inventati per mascherare le loro false dottrine e renderle accettabili, si ritorna pur sempre a questo punto: ciò che era pane diventa Cristo, in modo tale che, dopo la consacrazione, la sostanza di Gesù Cristo è nascosta sotto forma di pane. E questo non hanno vergogna di dirlo in modo esplicito e chiaro» (IV, 17, 13). Per sostenere tale dottrina «i papisti combattono oggi con impegno maggiore che per tutti gli altri articoli della fede [...] il pane si è mutato nel corpo di Cristo non nel senso che il pane si è fatto corpo, ma nel senso che Gesù Cristo, per nascondersi sotto le specie del pane, annulla la sostanza di quello. Stupisce che siano caduti in tanta ignoranza, per non dire stupidità, osando contraddire, per sostenere tale mostruosità, non solo la Sacra Scrittura, ma anche ciò che era sempre stato creduto dalla Chiesa antica» (IV, 17, 14).
Il caso Serveto
Il medico spagnolo Michele Serveto, fuggito dal carcere di Vienne, in Francia, dove era detenuto a causa delle teorie religiose «eretiche» - negava la Trinità e ogni significato al battesimo dei bambini, elementi che lo ponevano tra le file degli anabattisti - era giunto a Ginevra nel 1553. L'anabattismo costituiva il movimento cristiano più odiato da cattolici e protestanti e ancor di più dai prìncipi perché, fautore del ritorno alla semplicità evangelica, sosteneva l'abolizione della proprietà privata e non riconosceva le tradizionali autorità. Gli anabattisti avevano appoggiato la guerra dei contadini in Germania e avevano creato un'importante comunità comunistica a Münster, distrutta dai prìncipi tedeschi con il massacro di quasi tutti i suoi abitanti. Serveto fu arrestato il 13 agosto 1553 su denuncia di Calvino. Nella sua Istituzione egli è particolarmente violento nei riguardi di Serveto: «Il termine Trinità è stato ostico a Serveto, anzi detestabile, al punto che definisce senza Dio coloro che chiama trinitari. Tralascio molte delle espressioni villane e delle ingiurie da comiziante con cui farcisce i suoi scritti. Il sunto delle sue fantasticherie consiste in questo: si fabbrica un Dio in tre pezzi affermando che ci sono tre Persone dimoranti in Dio. Questa trinità è frutto di immaginazione in quanto contrasta con l'unità di lui; egli pretende perciò che le Persone siano idee o immagini esteriori, ma non dimoranti nell'essenza di Dio, che in qualche modo ce lo rappresentano [...] fantasticheria mostruosa [...] empietà [...] bestemmia esecrabile [...] fango [...]».
Il Piccolo Consiglio di Ginevra assunse informazioni su Serveto dalle autorità di Vienne, che richiesero la sua estradizione. Posto all'alternativa di essere rimandato nella città francese o subire un processo a Ginevra, Serveto scelse di rimanere nella città svizzera. Consultati anche i teologi delle chiese di Basilea, Berna, Sciaffusa e Zurigo, il Consiglio, che pure poteva anche limitarsi a bandire Serveto dalla città, emise, il 26 ottobre 1553, la sentenza di morte che fu eseguita, mediante rogo, il giorno seguente. Simile è il caso successivo di un altro antitrinitario italiano, il calabrese Valentino Gentile, imprigionato a Ginevra nel 1558, interrogato da Calvino in persona e costretto ad abiurare per evitare la condanna a morte - che subì però a Berna, nel 1566, per la stessa accusa. Calvino, che pure approvò la sentenza di condanna di Serveto - limitandosi a chiedere di commutare ll rogo con la decapitazione - non può tuttavia essere ritenuto responsabile, come si è ritenuto e ancora in parte si ritiene, dell'esecuzione di Serveto, la quale è da addebitarsi interamente ai magistrati di Ginevra, la maggioranza dei quali, tra l'altro, guardava allora con diffidenza alle riforme proposte da Calvino, come dimostra la decisione presa il 7 novembre di quello stesso anno dal Consiglio dei Duecento, di attribuire al Piccolo Consiglio il potere di comminare la scomunica, togliendolo al Concistoro. Tuttavia da quest'episodio è nata la leggenda di un Calvino dittatore di Ginevra, alimentata da autorevoli intellettuali moderni come Aldous Huxley[26] e Stefan Zweig[27]: in realtà Calvino, cui fu conferita la cittadinanza ginevrina soltanto nel 1559, come qualunque altro habitant non aveva il minimo potere di influire sull'amministrazione della giustizia. La sua approvazione della condanna a morte di Serveto lo conferma semmai come figlio del suo tempo.
Calvino pubblicò nel 1554 la Defensio orthodoxae fidei, contra prodigiosos errores Michaelis Serveti Hispani sostenendo che la condanna di Serveto fu giusta perché le sue dottrine mettevano in pericolo le anime di coloro che le avessero accettate. Il riformatore Sebastian Castellio rispose con il Contra libellum Calvini, deplorando la condanna di Serveto e sottolineando come «uccidere un uomo non significa difendere una dottrina ma nient'altro che uccidere un uomo. Uccidendo Serveto, i ginevrini non hanno difeso una dottrina, ma hanno ucciso un uomo [ ... ] se Serveto avesse cercato di uccidere Calvino, i magistrati avrebbero giustamente difeso Calvino. Ma poiché Serveto combatteva con ragionamenti e scritti, egli sarebbe dovuto essere contestato con ragionamenti e scritti».
La morte
La salute di Calvino cominciò a peggiorare a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta, soggetto a emicranie, emorragie polmonari e infiammazioni intestinali: a causa della gotta, doveva a volte essere trasportato sul pulpito, dal quale predicò per l'ultima volta il 6 febbraio 1564. Il 28 aprile salutò i pastori col suo Discours d'adieux aux ministres, dove ricordò i travagli della sua vita di «povero e timido studioso», spesa al servizio dell'Evangelo, nella quale - disse - subì anche minacce e insulti, e rivendicando di non aver scritto mai nulla «per odio verso qualcuno ma [di aver proposto] fedelmente ciò che [aveva] creduto potesse servire alla gloria di Dio». Morì la sera del 27 maggio: conformemente al suo desiderio, venne sepolto in una tomba anonima, in modo che le sue spoglie non potessero essere oggetto di un culto che egli aveva sempre deprecato.
da Wikipedia
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