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Ignazio di Antiochia

IGNAZIO ('Ιγνάτιος) d'Antiochia, santo. - Vescovo di Antiochia all'inizio del secolo II, condannato a morte dalle autorità romane e tradotto a Roma, inviò a varie chiese sette lettere, uno dei più importanti monumenti letterarî del cristianesimo antico, incluso nei cosiddetti Padri apostolici. Esse permettono di ricostruire il cammino da lui percorso, con tappe a Filadelfia (la cui comunità I. conobbe direttamente), a Smirne, dove fu accolto fraternameute dal vescovo Policarpo e donde scrisse alle chiese di Efeso, Tralle, Magnesia, che avevano mandato i vescovi a salutarlo, e a quella di Roma; finalmente ad Alessandria Troade, donde scrisse a Policarpo, e alle chiese di Smirne e Filadelfia. Altre notizie sulle accoglienze avute da I. in Macedonia sono fornite da una lettera di Policarpo (v.) ai Filippesi, che chiedevano copia delle lettere di lui. La condanna a combattere con le fiere si deduce da I. stesso (Romani, 4); la data del martirio è da porre quasi certo sotto Traiano (97-117), forse fra il 107 e il 108, forse dopo il 115.

Una raccolta delle lettere esisteva dunque già, a opera di Policarpo, mentre I. era forse ancora in vita o poco dopo il martirio; esse erano note a Ireneo e Origene; Eusebio poi (Eccl. Hist., III, xxxv1, 5-10) enumera le sette lettere menzionate; non mancano citazioni posteriori. A stampa, tuttavia, furono edite dapprima (Parigi 1495) quattro presunte lettere latine di I. alla vergine, con la risposta, e due di I. a s. Giovanni, che possono risalire al sec. XI o XII. La loro inautenticità fu riconosciuta allorché si conobbe prima la versione latina (Parigi 1498) poi il testo greco (Dillingen 1557, Parigi 1558, Zurigo 1559) d'una raccolta che comprende, oltre alle menzionate, altre sei lettere, nell'ordine seguente: I. a una Maria di Cassobola e risposta di lei; I. ai Tralliani; ai Magnesiani; ai Tarsensi; ai Filippesi; ai Filadelfî; agli Smirnei; a Policarpo; agli Antiocheni; al diacono Erone di Antiochia; agli Efesini; ai Romani.

È la collezione contenuta in numerosi codici, e sull'autenticità della quale si accese vivissima la discussione, tra cattolici e anglicani da una parte, e protestanti presbiteriani dall'altra (v. sotto). Ma fin dal 1598 il protestante A. Schultes (Scultetus, Medulla theologiae Patrum) aveva riconosciuto che le lettere erano da considerare autentiche, benché interpolate. Nel 1644 e nel 1646 l'arcivescovo anglicano di Armagh, J. Ussher, e I. Voss pubblicavano a Oxford e ad Amsterdam rispettivamente la versione latina e il testo greco (dal codice Mediceo-Laurenziano 57,7, sec. XI) di una recensione più breve (o recensione "mista": Funk) che conteneva con le lettere ignote a Eusebio (tranne Filippesi), anche quelle da lui menzionate, in forma più breve. Infine nel 1689 il Ruinart pubblicava a Parigi anche il cosiddetto Martyrium Colbertinum, cioè una narrazione del martirio d'I. contenuta in un codice Colbertino, nella quale era inserito il testo originale di Romani. Giacché, nonostante le discussioni continuassero a lungo, si riconosce oggi universalmente che il testo originale dell'epistolario ignaziano è quello della recensione breve; ed è ben presto tramontata l'ipotesi del Cureton che, avendo stampato nel 1845 una versione siriaca di Efesini, Romani e Policarpo in forma ancora più breve (recensione "brevissima"), ritenne che questa sola rappresentasse l'originale.

Si tratta invece di estratti, e non mancano testimonianze d'una più antica versione siriaca del testo completo. Anche i dubbî sulla paternità ignaziana dell'epistolario si possono dire rimossi del tutto; e i tentativi recenti di negarla (Van den Bergh van Eysinga, Delafosse-Turmel) sono dovuti al desiderio di scartare un ingrato testimonio contrario alle teorie della scuola "radicale" nel campo della critica neotestamentaria. Quanto alle interpolazioni e alle lettere inautentiche, esse sone riconosciute oggi come opera di uno scrittore, forse apollinarista, del sec. IV o dell'inizio del V, probabilmente lo stesso cui dobbiamo le cosiddette Costituzioni Apostoliche (v. apostolo, III, p. 713 seg.).

Causa precipua delle discussioni confessionali è la testimonianza che I. dà dell'esistenza dell'episcopato cosiddetto monarchico, che egli esalta con fervore e calore insuperabili: il vescovo dev'essere rispettato come il Signore, che parla per sua bocca (Efes., VI,1); egli è simbolo del Padre, mentre i presbiteri sono il sinedrio di Dio e il consiglio degli apostoli (Trall., III,1; cfr. Magn., vI,1); al vescovo bisogna ubbidire, valida è solo l'Eucaristia celebrata da lui o da un suo incaricato; dov'è il vescovo, ivi sia il popolo, come la Chiesa è ovunque sia Gesù; chi onora il vescovo è onorato da Dio, chi fa qualcosa di nascosto del vescovo rende servizio al diavolo (Smirn., VIII-IX, 1). Questa testimonianza, e la mancanza di accenni a una lotta, fosse pure del passato, per la supremazia tra il vescovo e un collegio dei presbiteri, contraddicevano al modo - diffuso tra non cattolici - di raffigurarsi l'evoluzione storica della gerarchia ecclesiastica nei primi secoli: oggi se ne riconosce anche da critici indipendenti lo schematismo. Pur tralasciando qui la complessa questione (v. vescovo), è da riconoscere che il vescovo costituisce per I. il simbolo visibile dell'unità della Chiesa e di ciascuna comunità; la sua insistenza sull'unicità della celebrazione eucaristica mira a distogliere i fedeli dall'accedere a conventicole ereticali.

Ma l'eresia cui I. accenna, se si vogliono abbinare le due tendenze, giudaizzante e docetistica, cui egli allude, non si può collocare né nel tempo né nello spazio (anche Cerinto, cui taluni hanno pensato, è da scartare); se dunque I. talora le ricorda insieme, è in quanto ambedue divergono dall'insegnamento tradizionale e introducono, per così dire, stonature nel "coro" che dal concorde amore dei fedeli "aderenti al vescovo come le corde alla lira" si eleva fino a Gesù Cristo (Efes., Iv,1; cfr. Rom., II, 2). D'altra parte, il docetismo e qualche accenno a dottrine di carattere gnostico non costringono affatto a pensare (come vorrebbero recenti negatori dell'autenticità) a Marcione o ai grandi sistemi gnostici del sec. II inoltrato o del III. La frase προκαϑημένῃ τῆς ἀγάπης ("alla presidente dell'amore", Rom., prol.) è tradotta e interpretata diversamente da protestanti e da cattolici: questi vi avvisano un riconoscimento del primato romano.
di Alberto Pincherle - Enciclopedia Italiana (1933)
da Enciclopedia Treccani
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