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Gli Eretici   dal
Medioevo alla Riforma





Gli  Anabattisti  Italiani


L’anabattismo italiano non ebbe i contenuti politici di quello tedesco, non si armò per combattere una rivoluzione sociale ma fu caratterizzato da una grande rivoluzione dottrinale.

Non furono pochi i cattolici italiani che aderirono all’anabattismo. Parteciparono al raduno di Vicenza (1549-1550), dove si era formata una comunità detta dei fratres vicentini, e al Concilio anabattista di Venezia del 1551. In quell’anno fu giustiziato a Ferrara per volere del duca Ercole II d’Este il monaco benedettino Giorgio Siculo, che aveva aderito all’anabattismo. L’esecuzione fu espressamente richiesta dal cardinale Ercole Gonzaga.

La presenza dell’Inquisizione dal 1542 costrinse gli anabattisti a comportarsi in patria con cautela, nascondendo il più possibile il loro credo. Questo comportamento fu definito Nicodemismo, in riferimento al fatto narrato nel Vangelo di Giovanni: il fariseo Nicodemo, per non essere visto e quindi accusato dagli altri Farisei, andò di notte da Gesù Cristo per interrogarlo sul Regno di Dio.

Il credo degli anabattisti italiani consisteva nelle seguenti dottrine:
Unitarismo o antitrinitarismo
Condizionalismo
Anabattismo
Il battesimo è il simbolo della propria consacrazione
La Santa Cena è memoria mortis Christi
Chiliasmo o Millenarismo
L’Anticristo è il Papato
La scomunica, intesa come esclusione dalla Santa Cena, non deve essere seguita dalla  persecuzione dello scomunicato
Libero arbitrio e critica alla dottrina della predestinazione di Calvino
Il capo della Chiesa è Gesù Cristo e la Chiesa è il Suo Corpo mistico
I rigenerati dalla Grazia sono tutti santi perché hanno ricevuto lo Spirito Santo e risorgeranno      nello spirito alla fine del mondo, che però non sarà distrutto ma ricomincerà rinnovato ad esistere (Regno di Cristo sulla terra)
Lo Spirito Santo negli eletti dalla Grazia è una santa disposizione di mente e di cuore, una potenza divina nell’animo che lo rafforza contro il Nemico.

Le persecuzioni dell’Inquisizione spinsero riformati e anabattisti a lasciare l’Italia per la Rezia. Tra gli anabattisti ricordiamo Francesco Calabrese, che era stato anche espulso dalla contea Asburgica del Tirolo, Girolamo Milanese, Camillo Renato, Matteo Gribaldi, giureconsulto piemontese, Giorgio Biandrata, medico piemontese, Valentino Gentile, Lelio Socini, i suoi fratelli Camillo e Dario e suo nipote Fausto.

Camillo Renato (cioè ri-nato) era il soprannome che si era dato da anabattista il frate francescano Paolo Ricci, nato in Sicilia intorno al 1500. Dopo che si era convertito all’anabattismo, si rifugiò in Rezia nel 1542 per sfuggire al neonato Tribunale del Sant’Uffizio. Scrisse un Trattato del Battesimo e della Santa Cena. Fu il maestro di Lelio Socini. Venne scomunicato da Calvino nel 1550 e nel 1551 fu costretto da Pier Paolo Vergerio a ritrattare tutte le sue dottrine se voleva salva la pelle.
Rimase in silenzio fino alla morte di Serveto, ma dopo questo delitto non poté frenarsi e nel 1555 scrisse un lungo carme in latino dove invitava i riformati alla tolleranza ed esprimeva la disillusione degli eretici italiani per Calvino. Poi scomparve di nuovo dalla scena del mondo. Si sa che negli ultimi anni divenne cieco. Morì intorno al 1572.

Matteo Gribaldi, famoso e ricercato giureconsulto piemontese, fu costretto al Nicodemismo finché fu in Italia, dove insegnava legge a Padova. Era tuttavia in continuo contatto con la comunità anabattistica di Vicenza. Quando fu scoperto,  venne immediatamente licenziato dall’Università di Padova per eresia. Andò prima a Zurigo poi nel 1557 si recò a Tubinga perché il duca Cristoforo di Wurttemberg gli aveva offerto una cattedra. Anche lì fu tradito. Pier Paolo Vergerio lo denunciò per eresia e fu indetto un processo contro di lui. Gribaldi fuggì ma i suoi scritti furono tutti sequestrati. Non finì qui: il duca scrisse a Berna e a Basilea che l’eventuale presenza in città del Gribaldi era sommamente pericolosa. Il giurista si rifugiò a Farges, ma emissari di Berna lo raggiunsero e lo arrestarono, Fu processato e condannato all’espulsione. Dopo un breve esilio a Friburgo, tornò a Farges nel 1558. La moglie era morta e si trovava in miseria con otto figli: per fame fu costretto ad abiurare onde riottenere la cattedra a Tubinga. Nonostante ciò il senato accademico di Tubinga lo rifiutò come docente.

Valentino Gentile, cosentino, era un maestro di scuola che per le sue idee religiose nel 1556 dovette fuggire a Ginevra. Lì fu convertito all’anabattismo dal Gribaldi e dal Biandrata. L’ira di Calvino contro gli anabattisti lo spinse a sottoscrivere la "confessione di fede" del Gribaldi del 1558, sperando di evitare ulteriori persecuzioni. A Ginevra, la "confessione di fede" era una regola che si doveva osservare rigorosamente, sotto la pena di essere considerati "spergiuri ed infami". Gentile si pentì di essersi sottomesso alle autorità calviniste e nel giugno del 1558 fu arrestato e torturato come spergiuro. Calvino diresse personalmente l’interrogatorio, chiedendogli ripetutamente di rinnegare l’antitrinitarismo, fino a dire: "Che Dio ti converta o ti pieghi o che altrimenti ti sopprima". Gentile, malato e molto sofferente, restò in prigione per un mese, durante il quale venne interrogato insistentemente e ripetutamente sottoposto a torture fisiche. Finalmente, per l’intervento di due italiani, che assicurarono Calvino del suo pentimento e che ne chiesero la liberazione per le  sue gravi condizioni di salute, tornò in libertà. Prima però fu costretto ad una pubblica abiura: dovette attraversare Ginevra vestito da penitente e bruciare pubblicamente i propri scritti. Finalmente fuori dal carcere, si recò a Farges a casa del Gribaldi, ma qui fu nuovamente arrestato. Con una dichiarazione di fede nel calvinismo e con il pagamento di una cauzione riuscì a tornare in libertà. Andò allora a Lione. Ma anche qui fu ripreso e di  nuovo incarcerato. Si difese sostenendo che non contestava la dottrina ortodossa della Trinità ma solo l’interpretazione che ne dava Calvino. Gli andò bene e si rifugiò infine in Polonia.

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